Mantenimento dei figli maggiorenni fino a 34 anni
Il Tribunale di Modena con sentenza del 01/02/2018 ha statuito che con il superamento di una certa età, il figlio maggiorenne, anche se non indipendente, raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma che non lo rende più meritevole del mantenimento ex artt. 337-ter, 337- octies c.c.. I doveri di autoresponsabilità impongono al figlio maggiorenne di non poter più pretendere la protrazione dell’obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione” . L’età presuntiva in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed Europee, non va fissata oltre la soglia dei 34 anni. Da tal momento, lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non può più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento, dovendosi ritenere che, da quel momento in poi, il figlio stesso può, semmai, avanzare le pretese riconosciute all’adulto.
Massima a cura dell’ avv. Graziella Sangrigoli, del Foro di Catania, tratta dalla sentenza del Tribunale di Modena, pubblicata sulla banca dati Pluris Wolters Kluwers Italia e consultata in data 31/03/2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI MODENA
SEZIONE SECONDA CIVILE
nella persona del Giudice dott. Umberto Castagnini ha pronunciato ex art. 429 c.p.c. la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 3193/2017 promossa da:
V.M. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. D.D.
ATTORE
contro
G.M. (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. L.G.
CONVENUTO
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso depositato il 18/4/2017 M.V., rappresentata dall’amministratore di sostegno A.M.M., chiedeva l’immediato rilascio dei locali occupati dal figlio M.G., facenti parte dell’unità immobiliare sita in M., via G. n. 37 di sua esclusiva proprietà ed il rimborso delle spese sostenute per il proprio mantenimento presso la struttura CRA (Euro 2.600,00 mensili). A fondamento della domanda deduceva di aver convissuto con il figlio fino al ricovero in un centro per anziani, resosi necessario in considerazione della condizione di non autosufficienza, della necessità di seguire una terapia specialistica nonché per la totale indifferenza ed ostilità manifestata dal figlio G.; il convenuto avrebbe infatti tenuto comportamenti violenti nei confronti dei genitori, oggetto di querela in sede penale.
In punto di diritto, ha precisato che il rapporto intercorso tra le parti dovrebbe essere qualificato come comodato precario per cui, considerate le reiterate richieste di rilascio dell’immobile -sia orali che in forma scritta- la ricorrente avrebbe titolo per ottenere l’immediata riconsegna del bene; in particolare, il rapporto dovrebbe ritenersi risolto in seguito alla missiva del 2 marzo 2017 con cui il M. veniva invitato a rilasciare l’appartamento. In ogni caso, secondo la prospettazione di parte ricorrente, ancorché la detenzione non fosse qualificabile come precaria, sussisterebbe comunque un sopravvenuto ed imprevisto bisogno di rientrare nella disponibilità del bene essendosi la convivenza con il figlio dimostrata intollerabile.
G.M., costituendosi in giudizio, contestava l’avversa pretesa deducendo che tra le parti non era intercorso alcun contratto di comodato; che i genitori avevano, in realtà, consentito allo stesso di permanere nell’abitazione in adempimento spontaneo ad un obbligo di mantenimento o comunque di natura alimentare essendo egli privo di redditi e di mezzi di sostentamento; infine, che egli si sarebbe sempre occupato dei propri genitori senza che vi siano mai stati problemi di convivenza. Eccepiva quindi, in via preliminare, l’improcedibilità della domanda avanzata con rito del lavoro in quanto il rapporto non sarebbe qualificabile come contratto di comodato avendo la causa ad oggetto obblighi di assistenza familiare e comunque, nel merito, l’infondatezza della domanda.
All’udienza del 10 novembre 2017 il Giudice designato dott. R. Masoni si asteneva avendo autorizzato, in qualità di giudice tutelare, l’azione dell’amministratore di sostegno.
In seguito a nuova assegnazione del procedimento, all’udienza del 1 dicembre 2017, le parti -comparse personalmente- venivano interrogate liberamente ed all’esito, rigettate le richieste di prova, il giudice formulava la seguente proposta conciliativa “liberazione dell’immobile nel termine di sei mesi fatto salvo il diritto di G.M. di agire per il riconoscimento del diritto agli alimenti qualora ne sussistano i presupposti. Spese compensate”
La ricorrente dichiarava di accettare la proposta mentre il resistente chiedeva termine per esame. Con successiva dichiarazione il M. dichiarava di non accettare la proposta.
1. E’ pacifico che le parti, madre e figlio, abbiano da sempre convissuto nell’appartamento di cui si discorre sino alla morte del padre ed al ricovero della ricorrente in una struttura per anziani dopo che le sue condizioni di salute si erano aggravate. Da tale momento nell’immobile è rimasto ad abitare unicamente l’odierno resistente che lo occupa senza versare alcun canone o indennità.
E’ invece oggetto di contestazione la qualificazione del rapporto intercorso tra le parti in quanto -secondo la ricorrente- esso sarebbe riconducibile ad un contratto di comodato precario mentre -secondo la prospettazione di parte resistente- si tratterebbe di un adempimento spontaneo della madre ad un obbligo di mantenimento o comunque di natura alimentare.
La tesi di parte resistente non può essere condivisa.
1.1. E’ senz’altro da escludere che la permanenza nell’immobile sia avvenuta in adempimento di un obbligo di mantenimento gravante sui genitori tenuto conto, al di là delle condizioni economiche, dell’età di parte resistente (60 anni).
In proposito, è condivisibile l’orientamento affermato dalla giurisprudenza di merito secondo cui “con il superamento di una certa età, il figlio maggiorenne, anche se non indipendente, raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma che lo rende, se del caso, meritevole dei diritti ex art. 433 c.c. ma non più del mantenimento ex artt. 337-ter, 337- octies c.c.. In forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, il figlio maggiorenne non può pretendere la protrazione dell’obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione” (Cass, civ., 20 agosto 2014 n. 18076). Ne consegue che la valutazione delle circostanze che giustificano la ricorrenza o il permanere dell’obbligo dei genitori al mantenimento dei figli maggiorenni, conviventi o meno ch’essi siano con i genitori o con uno di essi, va effettuata “in guisa da escludere che la tutela della prole, sul piano giuridico, possa essere protratta oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, al di là dei quali si risolverebbe, com’è stato evidenziato in dottrina, in “forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani”” (v. Cass. n. 12477/2004, n. 4108/1993). Nel tentativo di identificare una età presuntiva, va rilevato, in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed Europee, che oltre la soglia dei 34 anni, lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non può più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento, dovendosi ritenere che, da quel momento in poi, il figlio stesso può, semmai, avanzare le pretese riconosciute all’adulto (v. regime degli alimenti)”. (Trib. Milano, sez. IX civ., ordinanza 29 marzo 2016).
Nel caso di specie, non risulta tuttavia che il M. abbia mai avanzato richiesta di alimenti né è stata fornita la prova che la madre, riconoscendo lo stato di bisogno del figlio e l’impossibilità per quest’ultimo di procurarsi mezzi di sostentamento, abbia inteso adempiere spontaneamente ad un’obbligazione alimentare tenendo presso di sé il figlio nell’immobile.
Neppure le richieste di prova orale genericamente formulate hanno ad oggetto tale specifica circostanza: non è infatti sufficiente che la ricorrente abbia volontariamente ospitato il figlio in virtù del vincolo familiare ma è necessaria la prova della consapevolezza in capo alla stessa di adempiere ad un’obbligazione giuridica e la volontà di far fronte all’obbligo tenendo presso di sé il figlio e fornendogli i mezzi necessari.
1.2. Parte ricorrente prospetta quindi il rapporto in termini di comodato precario. Il resistente contesta invece tale qualificazione evidenziando come non sia stata fornita alcuna indicazione sui tempi e le modalità di conclusione del contratto.
In effetti, la fattispecie in esame presenta delle peculiarità in quanto è pacifico che il M. non ha mai avuto il godimento esclusivo di una porzione dell’appartamento avendo le parti da sempre convissuto nella stessa abitazione condividendo ragionevolmente tutti gli spazi comuni. Parimenti pacifico è che tra le parti non sia stato stipulato alcun contratto in forma scritta.
D’altro canto non si può neppure ritenere che il potere esercitato dal resistente sull’immobile sia assimilato a quello proprio dell’ospite, qualificazione che priverebbe addirittura lo stesso della tutela possessoria e che non appare congrua stante la differente intensità e rilevanza dei rispettivi legami affettivi.
Ritiene quindi il giudicante che la lunga convivenza con la madre nell’appartamento, seppur non costituisca di per sé prova della natura alimentare del rapporto instauratosi, renda lo stesso comunque riconducibile ad un negozio atipico di tipo familiare, concluso per fatti concludenti.
Il rapporto negoziale intercorso ha dato vita ad una forma di detenzione qualificata ma precaria, equiparabile -ai fini della disciplina- a quella del comodato senza determinazione di durata.
La figura del negozio atipico familiare è stata utilizzata dalla giurisprudenza di legittimità per inquadrare il rapporto tra conventi more uxorio, in relazione alla casa familiare in termini di detenzione qualificata ed autonoma (Cass. 7214/2017; Cass. 7/2014). La fattispecie presenta alcune caratteristiche diverse da quella in esame in quanto il rapporto di filiazione non può sciogliersi liberamente diversamente da un rapporto di convivenza. Tuttavia, sotto il profilo del rapporto che si viene ad instaurare con l’abitazione, le due fattispecie sono assimilabili in quanto anche la convivenza con il figlio maggiorenne, in assenza di obblighi di mantenimento, è rimessa alla libera determinazione delle parti.
Non è infatti raro che i figli, divenuti maggiorenni, anche dopo aver raggiunto un età tale da non poter essere in alcun modo beneficiari del diritto al mantenimento, permangano nella casa natale unitamente ai genitori, in virtù di un rapporto oramai consolidato di solidarietà e affetto familiare che trova fondamento negli artt. 2 e 29 Cost.. Il rapporto che si instaura con il bene trova quindi tutela e costituisce una forma di detenzione qualificata.
Ciò non toglie tuttavia che non vi è alcuna norma nell’Ordinamento che attribuisca al figlio maggiorenne il diritto incondizionato di permanere nell’abitazione di proprietà esclusiva dei genitori, contro la loro volontà ed in forza del solo vincolo familiare. I genitori hanno quindi il diritto di richiedere al figlio convivente di rilasciare e liberare l’immobile occupato con il solo limite -imposto dal principio di buona fede- che sia concesso all’altra parte un termine ragionevole, commisurato anche alla durata del rapporto.
1.3. Ritiene il giudicante che il diritto di rientrare in possesso della propria abitazione sussista anche nell’ipotesi in cui il figlio maggiorenne, di un’età tale da non aver più diritto al mantenimento, non sia pienamente autosufficiente. Infatti, nell’ipotesi in cui un soggetto versi in stato di bisogno, troverà applicazione la somministrazione alimentare.
L’art. 443 c.c dispone che “Chi deve somministrare gli alimenti ha la scelta di adempiere questa obbligazione o mediante un assegno alimentare corrisposto in periodi anticipati, o accogliendo e mantenendo nella propria casa colui che vi ha diritto”.
Non sussiste quindi neppure in capo all’alimentando il diritto incondizionato di rimanere nell’immobile con i genitori ben potendo i soggetti tenuti all’obbligazione alimentare adempiere con modalità congrue diverse come, ad esempio, attraverso il riconoscimento di un assegno periodico (obbligazione alternativa).
Appare comunque irrilevante in questa sede accertare se il resistente versi o meno in stato di bisogno in quanto, non avendo formulato alcuna domanda di somministrazione alimentare, la mera situazione di difficoltà economica non potrebbe comunque paralizzare il diritto della ricorrente di rientrare nel pieno possesso dell’immobile.
1.4. Alla stregua delle considerazioni che precedono, qualificato il rapporto in termini di detenzione precaria, la domanda di rilascio deve essere accolta. Infatti, ai sensi dell’art. 1810 c.c., quando il termine di restituzione non è stato convenuto dalle parti e non può desumersi dall’uso cui la cosa doveva essere destinata, il comodatario è tenuto a restituirla non appena il comodante gliene faccia richiesta. Nel caso di specie, la richiesta risulta formulata con raccomandata del 2/03/2017 (doc. 10).
1.5. La domanda avanzata dal resistente, in via subordinata, di concessione di un termine per il rilascio deve invece trovare accoglimento.
La rilevanza sociale e giuridica che riveste il rapporto di filiazione non incide, in assenza di un’obbligazione di mantenimento o di natura alimentare sul diritto di ottenere il rilascio dell’immobile occupato, ma si riverbera piuttosto sul piano del canone di buona fede e di correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento. Tale principio impone al soggetto che legittimamente intende rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva disponibilità del bene, di concedere un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione abitativa.
Nel caso di specie, la concessione di un termine per il rilascio -oltre ad essere imposta dal principio di correttezza e buona fede- consentirebbe comunque al resistente, se del caso, di proporre in separato giudizio autonoma domanda di somministrazione alimentare.
Tenuto conto, da un lato, dell’esigenza manifestata dalla ricorrente e, dall’altro, dal tempo di permanenza nell’immobile e dell’affidamento maturato, appare congrua la concessione di un termine di mesi quattro.
2. La domanda di rimborso delle spese sostenute dalla ricorrente per la permanenza nella struttura per anziani è invece infondata. In considerazione delle condizioni di salute della stessa, non vi è prova che ella, nell’ipotesi di tempestivo rilascio dell’appartamento da parte del figlio, avrebbe potuto continuare a vivere nell’appartamento e che il trasferimento sia quindi dipeso dalla sola intollerabilità della convivenza con l’odierno resistente.
3. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo -in conformità alla nota spese depositata dalla ricorrente, che appare adeguata ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014- vanno poste integralmente a carico del resistente, secondo il principio di soccombenza.
Il rigetto della domanda di condanna al rimborso delle spese per il ricovero nella struttura, avanzata dalla ricorrente, non giustifica la compensazione delle spese processuali. Deve infatti essere valutata la mancata adesione del resistente alla proposta conciliativa formulata dal Giudice, a cui la ricorrente ha invece aderito, dichiarandosi così disponibile a rinunciare alla domanda risarcitoria risultata infondata.
P.Q.M.
Il Tribunale di Modena, in persona del Giudice dott. Umberto Castagnini, definitivamente pronunciando sul ricorso ex art. 447-bis c.p.c. proposto da M.V. nei confronti di M.G., ogni diversa domanda, eccezione, istanza disattesa e/o assorbita, così provvede:
1) Condanna G.M. al rilascio in favore di V.M., in persona dell’amministratore di sostegno, dell’immobile di proprietà della ricorrente, sito in M., via G. n. 37, libero e sgombero da persone e/o cose, fissando per l’esecuzione del rilascio la data del 1 giugno 2018;
2) Rigetta la domanda avanzata dalla ricorrente avente ad oggetto il rimborso delle somme sostenute per la permanenza presso la struttura CRA;
3) Condanna G.M. a rifondere a V.M. le spese di lite del presente giudizio che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, Euro 141,48 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Modena, il 1 febbraio 2018.
Depositata in Cancelleria il 1 febbraio 2018.